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La "Resurrezione", annuncio di fede testimoniato dalla carità e dalla speranza

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La "Resurrezione", annuncio di fede testimoniato dalla carità e dalla speranza

Non è mia intenzione portare a sostegno della verità di fede o "credibilità" dell'annuncio di resurrezione nessuna argomentazione razionale, né entrare in merito ad alcuna questione relativa alla documentabilità oggettiva dell'evento salvifico prospettatoci dalle testimonianze evangeliche delle donne, dei discepoli e di Paolo. Mia intenzione è cercare di capire e di spiegare il carattere specifico: letterario, esistenziale e teologico dei testi biblici che tale evento ci presentano: il loro messaggio.

A questo fine mi limiterò a poche considerazioni generali introduttive di metodo sul rapporto tra Parola biblica e storicità, subito seguite dalla lettura-commento di alcuni passi neotestamentari sul nostro tema.

La parola e la storia

«Per la teologia cristiana è fondamentale dare radicamento storico alle affermazioni di fede», che essa enuclea dal testo della rivelazione biblica: scrive J. L. Ska del Pontificio Istituto Biblico, nell'introduzione di un breve e bel testo su La Parola di Dio nel racconto degli uomini (Assisi, 2005, p. 5). Lo scrive per chiarire di che tipo di radicamento storico si tratta. Un radicamento in larga parte simbolico e di principio, visto che ormai gli studi storici e archeologici hanno dimostrato, che l'intero impianto narrativo del Pentateuco e dei libri che seguono, fino al 16? capitolo di I Re (850 a. C. circa), vale a dire il cuore della Bibbia ebraica, modello e fondamento di quella cristiana, ha perso ogni possibilità di riferimento storico diretto ( I. Finkelstein. N. A. Silbermann, Le tracce di Mosé, la Bibbia tra storia e mito, Carucci, Roma 2002).

La Bibbia va dunque, in gran parte, letta come racconto epico-narrativo, che ricostruisce la storia passata in ottica teologica, finalizzata ad esprimere e formare la vita di fede e la prassi etica di una comunità di credenti nel Dio unico, che nella storia si rivela come salvatore. Nelle Sacre Scritture, egli osserva, noi troviamo una parola storica umana, letterariamente formata secondo i dettami della cultura del suo tempo, in cui, sulla base della pregnanza del messaggio e spinti dallo Spirito, riconosciamo la presenza nascosta della Parola storicamente rivelata di Dio, sorgente di fede, di speranza e di amore e , proprio per questo, salvifica.

Quindi conclude: «Se torniamo alla Bibbia, possiamo chiederci che cosa ci troviamo. Resoconti esatti dei fatti? Cronache di testimoni oculari? Opere di storici? Opere d'arte? Forse troviamo un po' di tutto mescolato. Però, in genere, abbiamo piuttosto opere d'arte (una raccolta di piccoli e grandi capolavori letterari, a volte abbastanza naïf), il cui scopo è trasmettere un messaggio su quanto è accaduto (non come fatto storico in sé, ma come messaggio formatore di coscienza e alimentatore di speranza e di carità)» (p.139).

I Racconti della Nascita e della Resurrezione come vangelo teologico

Detto ciò veniamo al genere letterario dei testi che ci parlano di resurrezione e vediamo che caratteristica hanno nell'insieme dei vangeli. In due parole: mentre tutti e quattro i vangeli presentano delle narrazioni della passione e morte di Gesú quasi sovrapponibili e dei resoconti della sua vita e della sua opera di maestro e profeta variate, ma sui punti essenziali convergenti, si nota subito che, per quanto riguarda i racconti di nascita e di resurrezione, gli evangelisti procedono ciascuno a suo modo con differenze non solo notevolissime, ma spesso inconciliabili.

Per i Vangeli dell'infanzia lo si può vedere, tenendo presente il silenzio in proposito di Marco e Giovanni e confrontando tra loro le storie diversissime create da Matteo e Luca, centrata la prima sulla figura di Giuseppe, la seconda su quella di Maria. Quasi tutti gli esegeti ammettono che, per questi capitoli, i due testi trovano la loro verità non nella corrispondenza tra narrazione ed eventi storici, ma nella intenzione teologica di dare forma simbolica efficace alla fede nella divinità di Gesú, nel messaggio di fede dell'incarnazione storica di Dio. Sono cioè racconti teologici, non storici.

Credo che analoga lettura possa essere fatta per i racconti di resurrezione, che presentano la stessa varietà letteraria e la stessa configurazione simbolica del linguaggio. Il loro annuncio è vero, non perché storicamente dimostrabile, ma perché espressione di una convinzione di fede profonda che trasforma la vita dei testimoni e, attraverso questa, trasforma anche la storia: la apre alla speranza e alla possibilità del compimento ultimo escatologico. L'annuncio di resurrezione ha la sua verifica di storicità nella capacità di convincerci a pensare e agire in modo che la storia possa essere diversa da quello che è. La sua verità storica non sta nel passato, ma nelle possibilità aperte del futuro, nella presenza operativa nell'oggi della fede nel Crocefisso-Risorto come carità operante di Dio. Se viene meno questa fede, se vengono meno con essa la speranza e la carità, se viene meno il sogno che Dio possa in Cristo adempiere la sua promessa, la resurrezione perde completamente di credibilità e di radicamento storico e, forse di efficacia. Gesú stesso, infatti, di fronte ai dubbi sulla possibilità che Dio risponda infine alle attese dei giusti, esclama: « Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?» (Lc 18, 7-8). Sottinteso: « Se non la troverà, come potrà portare a compimento la sua azione redentrice?».

«Gesú il Nazareno non è qui, è risorto»

L'esame dei singoli passi neotestamentari sarebbe davvero lungo. L'ho fatto altrove: in nove articoli sul mensile torinese "il foglio" (2002-2003), e nelle pagine di questo libro. Qui mi limiterò a quattro rimandi brevi ma essenziali: la vera conclusione di Marco (16, 1-8), il discorso di Pietro secondo Atti 10, 34-42 e il cenno di Paolo alla sua visione di Damasco (Galati e I Corinti), il primo finale di Giovanni (21, 29), l'apparizione ai due di Emmaus (Lc 24, 13-33).

Ogni moderno lettore dei vangeli deve sapere che Marco conclude col versetto 8 del capitolo 16 e non contiene quindi racconti di apparizione, perché i versi, che ad esse accennano (16, 9-16), sono un'aggiunta molto tardiva, sintesi degli altri vangeli. Marco termina il suo "Vangelo di Gesú Figlio di Dio" (1, 1) con l'annuncio angelico alle donne corse al sepolcro; annuncio che il Gesú, da loro tanto amato e ucciso cosí tragicamente, non giace tra i morti, ma è risorto e precede i suoi in Galilea. E, quando sa questo, il lettore vede il vangelo guidarci alla fede con questa affermazione paradossale: «Ed esse fuggirono, ...e non dissero niente a nessuno, perché avevano paura». Allora il lettore capisce che l'annuncio di resurrezione di Marco è completo e compiuto ed efficacissimo. Confessa l'incredibile presenza al sepolcro spalancato della vittoria della vita sulla morte, del farsi presente di Dio come il Santo vivente tra noi, Gesú suo Figlio, che ci precede e guida sulle strade della Galilea, la terra del suo e del nostro cammino di salvezza. Non c'è bisogno d'altro. L'apparizione è promessa come avvio di questo cammino: «Là lo vedrete, come vi ha detto» (A. Bodrato, Il vangelo delle meraviglie, Cittadella, Assisi 1995, pp. 229-232).

Personalmente mi basta, ma non tutti siamo come Marco, neppure lo erano tutti gli evangelisti e gli apostoli. Cosí gli altri scritti neotestamentari, Matteo, Luca, Giovanni, Paolo compreso, ci parlano di apparizioni e a volte dettagliano fin troppo, molto concedendo al bisogno di meraviglioso dei loro contemporanei e, forse, di loro stessi. Sono, però, sempre avvertiti. Mai pretendono di spacciarci tali visioni come fatti storici constatabili e verificabili da tutti. Sempre dicono che Gesú è apparso "a uomini prescelti" da Dio, di preferenza "tra chi aveva vissuto alla sua sequela e poteva annunciarne vita, morte e resurrezione" (Atti , 10, 40-42). In via eccezionale, ci dicono, ciò è accaduto anche a uno che, come Paolo, mai lo aveva visto, anzi ne aveva perseguitato i seguaci (Atti 9, 1-9). Ma allora presentano la sua visione come una esplicita e diretta confessione di fede, come un atto di conversione e di mistica visione di Dio (1 Cor 15, 8-9; Galati 1, 15-16).

Ecco perché Giovanni, moderatamente prodigo di apparizioni, presentandoci la piú materiale tra esse, quella dell'incredulo Tommaso che vuole mettere le mani nelle piaghe del Crocefisso Risorto, conclude, senza farglielo fare, con l'ammonimento decisivo: «Perché hai veduto hai creduto: beati quelli che non avendo visto crederanno!» (20, 20). Parole che per essere le ultime del Risorto sono, per questo vangelo, davvero il punto fermo sull'intera questione. "Beati, allora, coloro che crederanno senza pretendere la dimostrazione storica dell'evento, ma l'accoglieranno facendo propria la testimonianza di fede di chi loro l'annuncia".

Emmaus: verso una fede kenotica

Potrei concludere qui, ma mi resta un ultimo rimpianto, dover risolvere in poche battute il racconto lucano dell'apparizione ai due di Emmaus. Questo perché Luca sembra l'evangelista piú esplicito nel sostenere la storicità delle apparizioni, mentre è il piú libero da preoccupazioni storico-fattuali, tanto da far salire al cielo Gesú, nel vangelo, il giorno stesso dell'apparizione ai Dodici (Lc 24, 50-51) e, all'inizio degli Atti, dopo ben 40 giorni di ulteriore permanenza catechistica (1, 9).

E chiudiamo davvero. I due di Emmaus se ne tornano sconfitti nella fede e nelle speranze dalla magnifica e tragica esperienza di incontro con Gesú a Gerusalemme. Avevano davvero creduto che egli fosse il Messia e che la salvezza fosse gloriosamente entrata con lui in Gerusalemme. Invece è stato respinto, catturato e ucciso come un farabutto della peggior specie. Nell'incontro col pellegrino verso Emmaus lo confessano sconfortati e non colgono nella sua amichevole presenza nessun segno storico o empirico che li faccia pensare a Gesú. Nè lui cerca in alcun modo di rendersi con qualche gesto o parola riconoscibile. Solo spiega loro le Scritture. Li aiuta a ripercorrere le loro attese e le loro speranze di fede; li guida nella lettura kenotica dell'annuncio veterotestamentario e profetico di salvezza. Li conforta, li guida nella fede ed essi lo accolgono in casa e al momento di condividere il pane lo riconoscono nell'atto di comunione, di continuità nella vita e nell'amore. È quanto basta. Sanno che è Lui, che è vivente accanto a loro. Alzano gli occhi per averne conferma e non c'è piú. Non ce ne è bisogno. Ne hanno avuto l'esperienza di fede e possono correre per condividerne con gli altri discepoli l'annuncio: « Davvero il Signore è risorto» (24, 30) e per partecipare all'esperienza di carità e di vita della nascente comunità cristiana, descritta da Luca negli Atti degli Apostoli.

Aldo Bodrato, Torino 21 - 1 - 09

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