È questa la seconda presentazione che faccio del libro di Barbaglio e mio su "Quale storia dopo Gesú?", un libro che ha un titolo tutt'altro che generico, trattando Barbaglio della vera azione e parola storica di Gesú e io del valore storico, per la nostra fede, della vita di speranza conseguente l'annuncio evangelico della "Resurrezione del Crocefisso".Ci interroghiamo, dunque, e l'uno e l'altro non solo sul senso del valore storico e simbolico della narrazione evangelica, ma anche sulla necessaria incarnazione del suo messaggio nell'oggi. Ambedue ci chiediamo quali siano, non le radici cosmico-religiose, ma storico-spirituali della fede nella figura di Gesú: quale storia sia iniziata e continui a partire dalla sua missione, morte e resurrezione.
Ora nella prima presentazione (28 -1- 08; Biblioteca "Villa Amoretti") mi sono fermato ad interrogarmi sul genere letterario dei racconti biblici di resurrezione, insistendo, anzi chiarendo, testi evangelici alla mano, che la loro storicità si radica non nella possibilità di ricostruire l'evento teologico e meta-storico della resurrezione stessa, ma in quella di ricostruire la maturazione spirituale, la convinzione testimoniale, la fede nella resurrezione del Crocefisso in Paolo e negli altri discepoli del Nazareno. Ho tentato di mettere in luce ciò che spinge i primi cristiani a dichiarare Gesú, risorto e vicino, compagno per sempre della loro missione, caparra di resurrezione per ogni giusto, povero e sofferente, di ogni "Beato", primizia della Gerusalemme Celeste, anticipo dei "nuovi cieli e nuova terra", secondo le promesse dei profeti per ogni creatura.
(Chi vuole può trovarne il testo sul sito internet: Aldo.Bodrato.It o su "Tempi di fraternità" n. 3).
Oggi, come dice il titolo scelto per il mio intervento, punterei a ridiscutere il tema dal punto di vista di un possibile incontro o scontro tra dottrina platonica dell'Immortalità dell'anima e messaggio biblico-evangelico di resurrezione dai morti dell'uomo nella sua piena identità personale.
Noi siamo
coloro che passano
e Dio
colui che ci sta
accanto.
Passanti gli uni
che passati saranno.
Passante l'Altro,
che a passare
continua.
Parlo, dunque, a titolo di passante, che sarà presto passato, di mortale tra mortali. Cosa ovvia a dirsi e, vorrei, a sentirsi. Ma che oggi, forse, non è piú cosi. Visto che papa Benedetto XVI ha pubblicato sul tema un'enciclica, Spe salvi, che privilegia la dottrina platonica dell'immortalità dell'anima sull'annuncio evangelico di resurrezione e che il libro di Vito Mancuso, L'anima e il suo destino (Cortina, Milano 2007), che muove in analoga direzione, ha conosciuto il successo mediatico che ha conosciuto in questi mesi.
Fino quasi a ieri, sul tema della vita dopo la morte, ci si limitava a non parlare molto, e ,nella normale pastorale della chiesa, sulla resurrezione quasi si taceva: per una sorta di afasia argomentativa, per mancanza di chiarezza esegetica e teologica sul valore delle testimonianze bibliche, per confusione negli sviluppi dei ragionamenti teologici da portare a sostegno dell'annuncio di fede, per mancanza di forti ragioni-esistenziali da proporre a sostegno della credibilità, anzi, della fruibilità delle speranze di vita a tale annuncio connesse.
Ancora non si era fatta esplicita la proposta di tagliare corto con tutto ciò, negando la serietà del problema della morte e quindi la necessità di dare ad esso una qualche risposta con la scandalosa follia dell'annuncio di resurrezione. Ancora non era rientrata trionfalmente in scena la vecchia dottrina platonica dell'immortalità dell'anima, cara ai Padri e ai Dottori medioevali, secondo cui nessuno muore veramente, ma tutti passano da questa ad un'altra vita e, quindi, sono da sempre e per ineluttabile sorte destinati alla vita eterna, beata o dannata che sia. Ma soprattutto, questa classica dottrina, ritenuta, forse un po' troppo presto, tramontata col tramonto della metafisica classica e della classica visione fissista e chiusa dell'universo, non si era ancora presentata nell'orizzonte teologico cristiano con la pretesa della dimostrabilità razionale compiuta e della sua completa naturalità e autosufficienza da ogni ulteriore divino intervento di grazia e trasformazione storica e naturale. Quindi autonoma da ogni ipotesi di resurrezione (cfr. "Il foglio" n. 351).
Lo sostiene con vigore, non privo di retorica persuasività anche se non di scientifica logicità, Vito Mancuso nel saggio sopra citato, dove invoca a sostegno delle sue tesi proprio il testo teologico piú noto di papa Ratzinger. Nell'Introduzione al cristianesimo, scritto infatti dal futuro papa negli anni del Concilio, si afferma che l'idea biblica di resurrezione "risulta ai nostri occhi anche piú irrealizzabile" della dottrina greca dell'immortalità dell'anima (p. 287) e si ribadisce che la seconda è assai piú adatta della prima ad esprimere filosoficamente e teologicamente la vocazione umana all'incontro definitivo con Dio (p. 294-298). E sarebbe poca cosa, visto che si tratta di opinione teologica, discutibile ma piú che legittima, se, proprio lo stesso Ratzinger, diventato papa, non sottolineasse nell'enciclica (Spe salvi) questa sua preferenza dottrinale per l'immortalità, ponendo al centro del suo argomentare sul tema della speranza di salvezza, non i testi paolini ed evangelici sulla centralità della resurrezione per il credente, ma il mito platonico del giudizio sulle anime nell'oltretomba, tratto dal Gorgia. "Immagini - egli precisa - mitologiche, che rendono (però) con evidenza inequivocabile la verità" (par 44). Questo, dopo aver parlato della "vita eterna", non nei termini apocalittici della "Gerusalemme celeste", comunità beata di risorti alla vita nella molteplicità, universale insieme e individuale, degli esseri in unione col Padre, il Figlio e lo Spirito (Ap. 21-22), ma di dissolvimento delle singole anime nell'immensità indistinta della pura e divina spiritualità, come "momento colmo di appagamento in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità.", come "immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo, il prima e il dopo, non esiste piú", come "sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia" (par. 12).
No, non è come anima immortale che oso stare tra voi per parlare il vecchio, anche se non eterno, perchè storicamente nato e condizionato, linguaggio di resurrezione. È come corpo mortale, capace nella sua materialità di sentire, conoscere e amare che parlo di risurrezione. Come corpo mortale, che ha esperienza del soffrire e del gioire, che ha, come molti, sfiorato e quasi desiderato la morte e che, come tutti, deve quel che gli resta del vivere all'attenzione e alla cura degli altri: come corpo ,infine, che si confessa ferito, ben piú che esaltato, da quello che l'Ecclesiaste chiama "nozione d'eternità" posta da Dio nel cuore dell'uomo (Qo 3,11). È come credente, infine, non come filosofo o come esperto di scienze umane e naturali, che tento di riflettere con voi sull'annuncio: "È risorto,...vi precede in Galilea"; annuncio che tanto ha spaventato le donne di Marco (Mc 16, 6-7) e che tanti echi di immaginazione creativa, di energia etica e spirituale, di linguaggio di fede e di speranza, di prassi storica, nel bene e nel male, ha suscitato e continua a suscitare fino a che continuerà a risuonare nelle orecchie degli uomini.
Col che non intendo sminuire in nulla il valore spirituale e religioso di qualsivoglia convincimento relativo all'esistenza di anime piú o meno immortali. Semplicemente sottolineo la problematicità di ogni tentativo di fondere tra loro queste diverse prospettive etico-spirituali sulla base della vecchia concezione greco-platonica dell'eternità e immutabilità del mondo, della concezione patristico-medioevale dell'Exitus e del reditus, della caduta e del riscatto, dell'onnisciente e onnipotente provvidenzialità del disegno divino, che tutto conduce dall'inizio alla fine con ottimistica certezza di successo, a spese di ogni attenzione alla libertà delle creature e alla problematicità della prospettiva d'amore kenotico, che guida la spiritualità biblica dall'Antico al Nuovo Testamento. Semplicemente ritengo giusto avvertire credenti e non credenti che, in sostanza l'appassionato "animismo panteistico" di Mancuso, che tenta di fondere evoluzionismo scientifico e provvidenzialismo teologico, ha poco a che fare con le conoscenze sui rapporti tra vita fisica e psichica proprie delle scienze umane e naturali, che ancor meno ha relazioni con tutto ciò il "freddo spiritualismo" di Ratzinger e che ben arduo, se non impossibile, è ricollocare all'interno di tali prospettive l'inudibile annuncio evangelico e paolino della resurrezione del Crocefisso e della resurrezione dei morti.
Inoltre voglio sottolineare che queste due prospettive, oggi rilanciate da Benedetto XVI e da Mancuso, sono tra loro non convergenti ma divergenti. Mancuso parla, evoluzionisticamente di un'anima che emerge naturalmente dallo svilupparsi sempre piú complesso della materia, da una sorta di, non meglio spiegato, salto metafisico dalla complessità materiale dei corpi viventi, ma mortali, alla spiritualità, vivente anch'essa , ma immortale, dell'anima umana autocosciente. Il Papa parla, nel vecchio linguaggio della neoscolastica del primo Novecento, di anima creata, di volta in volta da Dio, e naturalmente dotata di immortalità, con tutte le anomalie logico-filosofiche e le implicazioni teologiche (compreso il peccato originale, escluso da Mancuso), che ciò comporta.
Ho esaminato altrove il carattere pretertradizionale di questa posizione, che fa dipendere l'immortalità dalla natura e non piú dalla grazia, rinunciando all'antica e classica distinzione tra dato naturale e dono di grazia. Qui mi limito a sottolineare che le due dottrine dell'immortalità dell'anima oggi evocate in ambito cattolico non concordano , ma confliggono, non solo con quella biblica della resurrezione, ma anche tra loro.
Con tutto ciò non è nel mio intento neppure ritornare alla pur serissima posizione di Oscar Cullmann sull'inconciliabilità tra annuncio paolino della resurrezione e dottrina platonica dell'immortalità dell'anima. Sappiamo tutti che teologicamente la contrapposizione è reale ed efficace, ma pastoralemente incontra delle difficoltà, perché lascia irrisolta la domanda sul destino dell'uomo tra la morte e la resurrezione finale. A questo fine la patristica e la scolastica, all'interno della visione fissista della realtà del loro tempo, hanno cercato delle linee di compromesso che hanno dato buoni frutti, insieme a teorie e pratiche, quali il Purgatorio e l'Inferno, foriere di gravi deviazioni concettuali ed esistenziali nella vita delle Chiese e in quella dei singoli.
Lascio tutto ciò ad altri momenti di discussione, che coinvolgono competenze di storia della teologia e della pastorale, che mi sfuggono o che almeno dovrebbero essere trattate con altra disponibilità di tempo. Mi soffermerò ad osservare che la fede nella resurrezione e l'idea dell'immortalità dell'anima hanno in comune la necessità di rispondere ad una drammatica esperienza etico-esistenziale e religiosa: l'esperienza del trauma teologico della sfiducia nella giustizia divina, del lutto etico ed emotivo inconsolabile per la morte ingiusta del giusto, decretata non da un semplice e inconsulto atto di violenza selvaggia e illegale, ma da una sentenza espressa legalmente dal tribunale della Repubblica ateniese, nel caso di Socrate, dal Sinedrio ebraico e dal rappresentante legale dell'Impero, nel caso di Gesú.
La discussione intorno al diverso modo dell'antica cultura ebraica e della cultura greca classica di risolvere la relazione con la morte da parte di Socrate e di Cristo non andrebbe oggi ripresa a partire dalle posizioni di Cullmann, pure meritorie, ma dalla presa d'atto che, nell'uno come nell'altro caso, si tratta di due innocenti condannati a morte, proprio per mettere a tacere il loro messaggio, di due maestri che nulla lasciano scritto di sé, ma sopravvivono nella nostra memoria solo grazie alla testimonianza di loro interpreti e discepoli, che hanno elaborato il lutto per l'incolmabile perdita, gli uni rielaborando l'antica dottrina dell'immortalità dell'anima, gli altri l' ormai ben nota e discussa attesa della resurrezione dei morti.
Di qui vorrei partire oggi, ma qui oggi mi fermo. per rilanciare su tutti voi la questione: «È possibile e come è possibile, nel contesto culturale evoluzionistico in cui ci troviamo a vivere, credere e pensare, riconciliare immortalità dell'anima e resurrezione dai morti, coscienti che l'una e l'altra dottrina non si ancorano ad una qualche visione razionale o fideistica del mondo, ma all'interrogativo etico-teologico-esistenziale sul destino del giusto ingiustamente ucciso o anche solo dell'innocente a cui non è consentito di vivere? Come può il mondo, la nostra vita nel mondo essere accettata, senza che si sia offerta un'alternativa almeno attendibile, almeno esistenzialmente sostenibile, alla constatazione quotidiana che la realtà bruta della vittoria del forte sul debole ne è l'esito inevitabile, senza che il pensiero si apra alla possibilità che, come diceva il laico Horkeimer, ripreso da papa Ratzinger nella Spe salvi, "non sia l'assassino ad avere l'ultima parola"?».
Aldo Bodrato 18 - 2 - 09
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