La metafisica è morta
W la metafisica!

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La metafisica è morta, W la metafisica

Stephen Hawking e Leonarad Mlodinow, presentando il saggio Perché il grande disegno non dipende da Dio (Milano 2011) scrivono: «Ciascuno di noi esiste per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell'intera realtà. Ma la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte: come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l'universo? Qual è la sua natura e la sua origine? C'è bisogno di un creatore?» «Sebbene siamo minuscoli e insignificanti sulla scala del cosmo, ciò fa di noi in un certo senso i signori della creazione. Per comprendere il tutto al livello piú profondo, dobbiamo sapere, però, non soltanto come esso si comporta, ma anche perché. Perché c'è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questo è l'interrogativo fondamentale sulla vita, l'universo e il tutto».

«Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi piú recenti della scienza, e in particolare della fisica. Cosí sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza» (la repubblica 6 Aprile 2011).

Non so a voi, ma a me viene spontaneo, leggendo queste righe che uniscono l'inizio e la fine del bell'articolo dei noti fisici, esultare nel grido, opportunamente parafrasato, delle antiche corti in lutto: «La Metafisica è morta! Viva la metafisica». Intendiamoci bene. Morto il re vecchio se ne fa uno nuovo. Morta la Metafisica classica dei filosofi e dei teologi, c'è tutto lo spazio necessario per la metafisica dei fisici, dei chimici, dei sociologi e, perché no, dei filosofi e persino dei teologi anti-metafisici.

Non faccio ironia. Parlo sul serio e proprio per questo cerco, il piú sinteticamente possibile, di offrire qualche spunto sul come e perché la metafisica è nata unitaria e assoluta, si è moltiplicata e relativizzata, infine è morta, per rinascere non piú come certo sapere metafisico, ma come metafisica opinione, che è una sorta di mostruoso paradosso o contradictio in terminis, vale a dire, autentico sapere umano.

Parmenide, chi era costui?

L'origine del pensiero argomentativo che, in forma spesso metafisica, costituisce le basi della storia filosofica, teologica, scientifica dell'Occidente, risale alla Grecia del VI-V secolo dell'Evo Antico. Parmenide di Elea ne è l'eroe. È lui infatti che, in polemica con la visione metamorfica del reale propria della saggezza poetica, tenta di dare nuova forma al discorso degli “amanti del sapere”, i filosofi, che sono poi anche i fisici del tempo. Lo fa opponendo il logos della ragione ai logoi mitici, che come mostra la Teogonia di Esiodo si traducono in racconti imprevedibili nel loro capriccioso sviluppo.

I logoi mitici narrano l'essere del cosmo come un conflittuale divenire del molteplice, indistinto nella sua mutevole materialità animata, che faticosamente si regge in equilibrio sull'abisso vuoto dell'infinito nulla. Il logos della ragione lo presenta come una compiuta ed eterna unità, perfettamente racchiusa in se stessa e difesa da invalicabili confini. Il Logos, cosí inteso, altro non è che lo sviluppo concettuale rigoroso di quanto è da subito e per sempre autoevidente alla mente, vale a dire alla parte non-materiale dell'uomo, la sola che gli consente di formulare e comprendere l'assioma logico lessicale: «L'essere è e non può non essere, il non-essere non è e non può mai essere».

Ora tale assioma, mentre regola il lavoro della mente umana, anche ne fonda le caratteristiche di eternità, perfezione conoscitiva e potenza attiva, che la distingue dal resto del mondo animale e l'apparenta al divino. Cosí definito, l'ambito di dicibilità e di pensabilità dell'essere viene di necessità fatto coincidere immediatamente e messo in relazione univoca con la realtà oggettiva delle cose. L'essere come parola e l'essere come cosmo reciprocamente si rispecchiano con piena fedeltà e ciò pone il pensiero filosofico, costruito su tale assunto, al riparo da ogni interferenza col mondo empirico, instabile, sensibile, emotivo, mortale dell'esperienza corporea e della storica e indefinita mutevolezza del molteplice.

Parmenide formula dunque il principio di non contraddizione o del terzo escluso; principio capace di guidare il pensiero sul retto cammino che conduce «al solido cuore della ben rotonda verità», senza deviare verso l'opinione comune dei mortali, fonte d'inganno e falsità. E, mentre lo formula coll'intento di mostrare l'intrinseca evidenza razionale sua e delle conseguenti implicazioni logiche, sente la necessità di ancorarlo alla superiore autorità della Dea della Giustizia, presentandolo come frutto di una rivelazione donatagli a seguito di un'ascesa mistica alle porte del cielo, là dove giorno e notte, sole e luna, eternamente si scambiano il ruolo di signori del tempo e della vita. Strappa cosí, col tradizionale strumento del mito-racconto, il proprio argomentare di singolo dalla solitudine del particolare e del soggettivo e lo radica, come logos, sopra-mitico e meta-fisico, nell'universalità oggettiva della legge immanente e necessaria del Cosmo.

Ora Parmenide sa bene, e lo dice con sovrabbondanza di linguaggio e di partecipazione passionale: tutto il suo argomentare è possibile solo se ci si appella a una netta distinzione dei piani della realtà. La realtà superiore degli immortali, capaci di reggere col pensiero puro l'insostenibile pesantezza dell'essere uno, immutabile ed eterno. La realtà inferiore e depotenziata dei mortali perduti nel labirinto dei nomi («nascere, perire, essere non essere, cambiare di luogo e mutare di luce e di colore») e prigionieri della caotica mutevolezza del vivere caduco, tanto leggero da essere a sua volta insostenibile, nella propria volatile provvisorietà.

A parmenicidio compiuto

Parmenide, che usa la logica, basata sul principio del terzo escluso, come una mazza per inchiodare: la realtà dell'esistente all'eterna, unitaria, immutabile perfezione dell'Essere; quella del non-essere al Nulla assoluto; la molteplicità dei divenienti ad apparenza, transitoria ed irrilevante, non considera tale logica un prodotto, acquisito o innato, della sua piccola-grande mente di uomo singolo e finito. Non ritiene che essa sia frutto delle sue specifiche capacità speculative di essere, dotato di intelligenza e intuizione particolari (tutte cose che per lui si collocano nella sfera dell'inautenticità menzognera e fallace del finito). La considera una sorta di verità universale rivelata, donata o acquisita dall'alto, indiscutibile nella sua superiore oggettività, trans-storica e trans-terrena, oltre che trans-empirica. Anzi ritiene che ogni esitazione nel mantenere inalterata questa convinzione, ogni attenuazione di tale rigida assolutezza, segni l'inizio di pericolosi cedimenti nel rigore logico del pensiero dell'essere. Cedimenti che portano necessariamente alla dissoluzione di tale sapere, oltre che alla regressione dell'essere alla, mai sufficientemente compianta, condizione di metamorfica instabilità.

Il che è puntualmente avvenuto, anche se nell'arco di oltre due millenni, a partire dal parmenicidio, operato da Platone nel Sofista, con l'ammissione del non-essere come essere diverso, e dalla Metafisica di Aristotele con la distinzione tra i diversi modi di dire l'essere.

Quale metafisico contemporaneo, quale sostenitore dell'argomentazione logica, in campo scientifico e filosofico, potrebbe infatti oggi seguire Parmenide e i suoi sempre piú sparuti epigoni sulla strada di un sapere assoluto e oggettivo, senza appellarsi ad una superiore autorità immanente o trascendente? Senza dover mettere in discussione la propria laicità, la libera razionalità del suo pensiero? Senza confessarsi talebano, tutore di dogmi concettuali non-negoziabili? Quale filosofo, fisico, matematico, cultore delle scienze umane o positive potrà dire che le sue argomentazioni riguardano l'essere e il non-essere oggettivo delle cose, se, riconosce di non potersi piú appellare a nessun principio rivelato? Se deve ammettere che il frutto del suo pensiero è, per quanto ben argomentato, sempre frutto di una mente limitata nel tempo e nello spazio, condizionata dalla sua eredità di specie e dal suo bagaglio culturale, soggetta a possibili errori, a personali suggestioni, a future verifiche e correzioni di menti finite e mortali come la sua?

Quale teoria e dottrina teista, ateista o agnostica, ottimistica, realistica o nichilista potrà spacciarsi per ben rotonda verità, o almeno per assodato sapere o vera scienza, invece di doversi fare coraggiosamente avanti come proposta interpretativa? Quale doverosa e avventurosa metafisica, (perché trascendere i puri dati empirici e i singoli saperi specialistici è una necessità del pensiero, come ci hanno fatto capire anche fisici ipercritici come Stephen Hawking e Leonarad Mlodinow), può essere presa in considerazione da noi altrimenti che in forma di interpretazione metafisica d'insieme, che invoca, come unico ambito della propria proponibilità, l'agorà del dibattito, il confronto del dialogo e il vaglio della credibilità esistenziale?

Aldo Bodrato, giugno 2011

(Questo testo, verrà pubblicato sul sito web del mensile Esodo)
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