Frammenti del testo preparato per le conferenze tenute presso la parrocchia del Natale del Signore, in Torino.
Il Vangelo dell'infanzia di Luca è certo quello che piú ha contribuito all'iconografia e alla rappresentazione narrativa dell'Incarnazione e della Cristologia e che ha anche offerto gli spunti esistenziali e simbolici piú significativi per gli sviluppi della teologia cristiana tradizionale.
Se noi continuiamo la nostra ricerca, tenendo sempre negli occhi le immagini classiche del Presepe, come sintesi figurativa e popolare della storia della salvezza, ci accorgiamo subito che, mentre ai due "vangeli dell'infanzia" insieme dobbiamo: il bambinello, Maria e Giuseppe, la notte stellata e il paesaggio betlemmita, a Matteo dobbiamo sostanzialmente poco piú della cometa e dei magi, con relativo corteo di servi e cammelli e palazzo di Erode in lontananza. Tutto il resto viene o dagli apocrifi, come l'asino e il bue, o da Luca: luogo solitario di rifugio (grotta o stalla), mangiatoia, pastori e greggi, angelo annunciatore, luci celesti, cartiglio con "Gloria a Dio e pace in terra" e, per estensione, gran movimento accanto e lungo il percorso dalla mangiatoia, giú giú, fino all'estremo del paesaggio di gesso o di cartapesta o dipinto ad acquerello o ad affresco.
Ma già lo abbiamo detto, il Presepe è rappresentazione simbolica e folclorica di un messaggio teologico ed è di questo messaggio teologico che noi dobbiamo occuparci, rileggendo e interpretando il significato spirituale che il "Vangelo dell'infanzia" di Luca ci comunica. Un messaggio davvero unico ed essenziale a un tempo, anzi, piú essenziale che unico, visto che riguarda il ruolo della donna nel disegno di salvezza di Dio per l'umanità intera e per l'intero creato, che, in queste pagine di Luca, si svela appieno, ma che percorre nascostamente tutto l'Antico Testamento, e nel Nuovo riemerge con indici segreti già nei passi, da noi commentati, del primo capitolo di Matteo, in particolare nella citazione delle quattro figure femminili da lui ricordate nella genealogia di Gesú, prima di indicare Maria, sposa vergine di Giuseppe, come madre di Gesú ad opera dello Spirito.
Il tema urge, preme, vorrebbe che subito lo si mettesse in luce, ma deve pazientare. Prima dobbiamo chiarire, anche se in due parole, la tesi storico-filologica relativa all'esistenza di due stesure del vangelo di Luca. In un primo tempo, ci dicono gli esegeti, Luca racconta la vita di Gesú, aprendola con un breve prologo (1, 1-4), seguito dalle notazioni storiche precise dell'inizio della missione del Battista, dalla narrazione del battesimo di Gesú e della sua investitura a Figlio o Messia e dalla sua genealogia da Giuseppe ad Adamo "figlio di Dio" (3, 1-38), con tutto ciò che segue, compresi gli Atti, seconda opera di Luca. Poi, in un momento successivo, spinto dal ricco fiorire nella sua comunità di racconti relativi alla nascita del Battista e del Nazareno e agli anni dell'infanzia di Gesú, lo stesso autore decide di raccogliere alcune di tali tradizioni e di ordinarle, riconnettendole al tutto, cosí da ottenere una vita completa del personaggio eccezionale che sta al centro della fede della sua comunità. Dà cosí vita, con rinnovato slancio narrativo e teologico, ad una nuova stesura del suo vangelo, che resterà nella storia della Chiesa, come la forma canonica del suo Vangelo
Il che non ci deve stupire perché come ci testimoniano i primi autori cristiani del II secolo, ancora a distanza di quasi un secolo dalla morte del Nazareno, la tradizione orale lavora a trasmettere ricordi dell'"evento Gesú", piú o meno rielaborati teologicamente e narrativamente, dalla tradizione orale. Tanto che, proprio come ci dice Eusebio di Cesarea (Historia III, cap. 39, 15), Papia, vescovo di Gerapoli, primo testimone dell'esistenza scritta dei vangeli di Marco e di Matteo, cercava notizie sulla figura e sull'insegnamento di Gesú, piú che negli scritti già esistenti, nei racconti di coloro che erano stati discepoli dei suoi discepoli (R. P. Brown, La nascita del Messia, p.21).
Difficile è valutare quali sono le ragioni oggettive e soggettive che spingono Luca a integrare con questi due ampi capitoli la sua prima stesura della predicazione, missione, morte e resurrezione del Nazareno, senza apportare con ciò alcuna ulteriore modifica all'impostazione narrativa e teologica del suo racconto, anzi, avendo cura di orientare i materiali raccolti in tali capitoli nella direzione teologico-pastorale che lo aveva guidato nella stesura e del Vangelo e degli Atti. In un certo senso verrebbe da pensare, che non lo guidi tanto la preoccupazione di completare una narrazione che sarebbe pericolosamente mancante di un tassello narrativo e di uno spunto teologico essenziale, quanto di arginare e disciplinare una fioritura narrativa sulla nascita e sull'infanzia dei Gesú, che rischiava derive letterarie mitico-leggendarie e favolistiche, dannose per la verità e la serietà dell'annuncio di fede, e poteva favorire sviluppi teologici tendenti a enfatizzare o a minimizzare, per un verso la divinità, per un altro l'umanità di Gesú. Ecco allora che Luca, come già Matteo, prende in mano il problema della nascita di Gesú e lo riconduce ai due elementi essenziali per una sua corretta lettura in chiave di "Incarnazione" e di vocazione messianica: la nascita nella carne di colui che "sarà chiamato Figlio dell'Altissimo" (C 1, 32) e la sua discendenza davi dica, in quanto nato a Betlemme, patria di Davide e progenie legale del giudeo Giuseppe.
Il che significa che la verità di tali racconti non va cercata nel riscontro storico, puntuale e oggettivo dei fatti narrati, ma nel significato teologico dei loro rimandi simbolici e nel valore spirituale ed esistenziali e che se ne può ricavare per la nostra fede e per la nostra vita. Significa pure che ogni tentativo di ricostruire la personalità psicologica dei personaggi presentati non va riferita alla loro storicità personale, ma al loro valore simbolico narrativo, al loro ruolo di personaggi di un racconto teologicamente finalizzato.
Come abbiamo detto, Luca non si limita a raccogliere qua e là qualche colorita tradizione sulla nascita e sull'infanzia di Gesú. Questo lo faranno alcuni apocrifi. Luca seleziona attentamente e soprattutto inquadra teologicamente tali frammenti narrativi diversi e lo fa valendosi del costante e sapiente richiamo alla simbologia, al linguaggio e ai grandi esempi di nascite, fondamentali per la storia della salvezza, della tradizione scritturista giudaica.
Non per nulla il suo "Vangelo dell'infanzia" non inizia con la nascita di Gesú, ma con un doppio annuncio di nascita. Il primo nel Tempio, «al tempo di Erode re di Giudea», riguarda il Battista ed è rivolto ad un uomo, al vecchio sacerdote Zaccaria, sposato da anni e senza figli per la sterilità della moglie Elisabetta. A Zaccaria Gabriele predice che dal suo prossimo incontro con la moglie nascerà un bambino destinato a grandi cose e a cui dovrà dare nome Giovanni (1, 5-27). Il secondo, sei mesi dopo, vede lo stesso angelo, Gabriele, rivolgersi in una casa di Nazaret direttamente «a una vergine (Maria), promessa sposa ad un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe» (1, 26-27).
Chiunque può rendersi conto, infatti, che l'annuncio a Zaccaria si ispira a tre modelli narrativi veterotestamentari di nascita prodigiosa di personaggi decisivi per la storia di Israele da genitori anziani e madri sterili. Si tratta dell'annuncio ad Abramo centenario della nascita di Isacco (Gen 18, 11 e ss.), di quello alla sposa sterile di Manoach della nascita di Sansone (Gd 13, 2 e ss.) e di quello ad Anna, piangente per l'invincibile sterilità, della nascita di Samuele (I Sam 1, 5 e ss.).
Non possiamo farne l'esame dettagliato e il confronto, ma non è azzardato osservare che il racconto relativo all'annuncio a Zaccaria sintetizza elementi presenti in ciascuno di questi antichi racconti. Racconti in cui il figlio, lungamente desiderato, se non esplicitamente chiesto, nasce per esplicito intervento di Dio, l'unico a cui è riconosciuto il potere di dare vita, ma a seguito di un incontro sessuale volontario tra sposi, o troppo anziani per generare in proprio, o palesemente sterili nonostante una lunga e ben assortita unione di cuori e di corpi.
La novità che caratterizza l'annuncio a Maria non sta tanto nella sua giovane età di sposa promessa e vergine, quanto nel fatto che a lei ci si rivolge con l'offerta di collaborare ad una nascita inattesa e che le vien chiesto direttamente il consenso. Maria, diversamente da tutti i casi precedenti, prima ancora di aver messo alla prova la sua capacità generativa e di aver dunque atteso la nascita di un figlio, viene informata da Gabriele che Dio stesso desidera che lei metta al mondo un figlio per Lui. Non un figlio carnale di Dio, ma un uomo nato da donna che corrisponda in tutto al suo disegno messianico di salvezza e possa essere "chiamato Figlio dell'Altissimo". A Maria è chiesto di dare la sua disponibilità, ed essa aderisce prontamente con piena fiducia nella parola del Signore.
Certo si stupisce per il fatto che questa disponibilità ad essere madre le venga chiesta prima che abbia avuto rapporti sessuali con uomo alcuno, compreso il promesso sposo. Ma questo stupore non segnala nessuna particolare vocazione alla verginità. Si presenta come la domanda piú naturale del mondo, che può venire in mente ad una donna vergine, prima della consumazione dell'atto coniugale, e come tale suona benissimo, anche a fronte della risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio» (1, 35).
Del resto la notazione, già segnalata, che si tratta della sposa promessa ad un uomo della casa di Davide, unita alla prima dichiarazione dell'angelo che Gesú: «Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore gli darà il trono di Davide suo padre (1, 32)», conferma che Dio non intende affatto intromettersi ed interrompere, come terzo indesiderato, la normale relazione coniugale tra Maria e Giuseppe. Anzi la conferma, come già aveva segnalato Matteo, invitando Giuseppe a prendere Maria in sposa. Dio non fa, secondo gli evangelisti, del matrimonio di Giuseppe e di Maria nulla di diverso da un normale matrimonio umano; ma si vale "dell'umiltà dei suoi servi", debitamente informati prima e sondati sulla loro disponibilità, per la realizzazione del suo volere; fa della loro normale unione coniugale il veicolo umano consenziente e compartecipe di quella che la teologia cristiana chiamerà: "Incarnazione del Verbo".
Sta anche qui il senso compiuto del mistero del Natale: Dio si fa carne come Parola creatrice e redentrice, nella normale carne degli uomini, scende nella storia per vivere la vita di una creatura, in tutti i suoi risvolti positivi e negativi, "eccetto il peccato" (Eb 4, 15), fino alla morte. Questo pur essendo contemporaneamente Figlio di Dio e divino realizzatore della volontà salvifica del Padre, Messia, Cristo, crocefisso e risorto.
Il che non contrasta in alcun modo con quanto afferma Monsignor Ravasi, quando su "Jesus" ci parla de La grazia della Vergine Madre, del porsi della nascita di Gesú su «un piano trascendente, che non implica seme d'uomo», come coerente sviluppo della confessione di fede in Gesú "Figlio di Dio", e conclude, citando l'Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger: «Le leggende extra bibliche di questo tipo (dèi che mettono incinte donne per lo piú con atti di violenza o di seduzione) sono profondamente diverse dal racconto della nascita di Gesú ... La divergenza centrale sta nel fatto che nei testi pagani, la divinità appare quasi sempre come una potenza fecondatrice d'ordine sessuale, e quindi come padre fisico del bambino redentore. Nulla di tutto ciò nel Nuovo Testamento, la concezione di Gesú è una nuova realtà, non una generazione da parte di Dio. Pertanto, Dio non diventa suppergiu il padre biologico di Gesú» ("Jesus", dicembre 2008, p. 93).
Questo dovrebbe aiutarci a capire in luce nuova e davvero biblicamente profonda il valore della verginità di Maria. Essa non si configura come una virtú, che arricchisce e potenzia la donna fino al punto da renderla degna di essere scelta come "sposa di Dio". La verginità di Maria non è una ricchezza, ma una povertà nel contesto culturale ebraico, dove al piú e in casi rarissimi ed eterodossi, essa è praticata da uomini, come libera scelta (a Geremia è imposta come privazione simbolica del destino di rovina del suo popolo: Ger 16, 1 e ss.). Per la donna la verginità è sempre una fragilità ed una debolezza, forse peggiore della sterilità, perché segnala che essa è priva della protezione di un uomo ed è degna, ben piú che di esaltazione, di pianto, come mostra la conclusione del dramma della figlia di Iefte, la quale prima di morire, per adempiere ad un voto insensato del padre, chiede due mesi per «piangere con le compagne la sua verginità»: (Gdc 11, 37-40).
Del resto non è alla sua verginità che va riferita il "piena di grazia" del saluto angelico, ma alla scelta divina d'eleggerla a madre del Messia. Alla sua condizione di povera e vergine si riferisce invece il Magnificat fin dai suoi primi versi: «L'anima mia glorifica il Signore ... perché ha guardato all'umiltà della sua serva» e prosegue mettendo in luce che la grandezza del Signore si esprime come predilezione ed esaltazione dei poveri, dei deboli e degli umili, come abbassamento dei potenti, e proprio cosí dà compimento alla sua promessa di numerosa discendenza ad Abramo, come manifestazione della sua "misericordia" (1, 46-55). Il Magnificat poi, con altri accenti, viene ripreso nei suoi concetti fondamentali dal Benedictus di Zaccaria (1, 68-79). Due canti tipicamente lucani, ma che Luca scrive sulla falsariga dei salmi di lode e di ringraziamento a Dio, del canto di Anna (1 Sam 2, 1-10) e di altri canti simili della tradizione ebraica. Il che corrisponde alla tipica spiritualità di Luca, che mai perde occasione per indicare la predilezione di Dio e del suo Cristo per i poveri, i prigionieri, gli afflitti, gli umili, in genere, non risparmiando attacchi ai potenti, ai ricchi, ai grandi che dominano la terra (Lc 6, 20-26).
Nulla dunque è piú lontano dall'insistenza di Luca e di Matteo sulla verginità di Maria e sul concepimento verginale di Gesú, dall'usanza greca di esaltare la pratica della verginità sacra delle sacerdotesse, dedicate interamente ed esclusivamente agli sponsali misterici col dio del tempio cui esse appartenevano, che troverà una qualche eco nel modo tradizionale di assimilare la vocazione monastica femminile, cristiana, ad una sorta di "sposalizio col Signore". Gli "eunuchi per il Regno" di cui si parla nei vangeli e la verginità, esaltata da Paolo, hanno altra funzione dall'esaltazione di questo stato come superiore ad ogni altro, ma segnalano per un verso la disponibilità ad accogliere l'invito a dedicare ogni propria forza, anche con grave sacrificio, all'annuncio della "Buona notizia"; per un altro quella di sottolineare la brevità del tempo che separa, secondo Paolo, la sua missione dal ritorno glorioso del Cristo e quindi la contingente irrilevanza dello stato celibatario o matrimoniale in cui ci si viene a trovare in questa situazione di attesa imminente della fine.
C'è inoltre una ragione teologico-simbolica anche piú profonda per valorizzare appieno il richiamo di Luca e di Matteo alla condizione verginale di Maria all'atto del concepimento di Gesú ed è la ragione che ha spinto il teologo Ratzinger a precisare, nel passo sopra citato, che il concepimento di Gesú è "una nuova realtà", nel senso quasi di una "nuova creazione" e non una "generazione", nel senso di un'"inseminazione", in qualsiasi forma fisica possibile. Essa si lega all'idea biblica che qualsiasi atto sessuale teso a dare vita non porta da solo alla nascita della vita nuova, se non per divino beneplacito.
Lo testimonia l'espressione comunemente messa in bocca, da Eva in poi, alle donne che si rallegrano per la nascita di un figlio. Sebbene si precisi per solito che questo avviene dopo l'accoppiamento con un uomo, per il solito lo sposo, le donne non dicono: «Mio marito mi ha dato un figlio». Dicono: «Ho acquistato un uomo dal Signore ... Dio mi ha concesso un'altra discendenza» (Gen 4, 1 e 4, 25). Questo perché ogni nuova nascita è sentita come un dono diretto di Dio, quasi come una sua nuova creazione; tanto che la famosa madre dei sette fratelli martiri per la fede nel Secondo Libro dei Maccabei, cosí può esprimersi: «Non so come siete apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per la sua legge non vi curate di voi stessi» (7, 22-23).
Il che viene in particolare sottolineato e ripreso nel caso della nascita di Gesú da una donna vergine, come vergine era la terra, "informe e deserta", su cui deve aleggiare lo Spirito perché si dia inizio alla creazione del mondo (Gen 1, 2; crf. R. P. Brown, p. 399)). Oppure viene evocato dalla profezia di Isaia al re Acaz, dove si afferma che «la giovane donna (probabilmente sposa del re) partorirà un figlio, che chiamerete Emanuele. Egli mangerà panna e miele...» (7, 11). Profezia che i Settanta traducono «La vergine partorirà», proprio per indicare che è su una sorta di terreno incolto, quello su cui opererà direttamente Dio, se non ancora con l'"Incarnazione", con una nascita, destinata ad essere segno profetico, a farsi, col tempo, simbolo messianico e preannuncio di una creazione totalmente rinnovata, all'insegna della ripresa della radice davi dica (Is 11, e ss.).
Luca non lo richiama espressamente, Matteo sí. Ma l'uno e l'altro certo l'hanno nell'orecchio quando accolgono nei propri vangeli questa voce della tradizione orale sulla nascita di Gesú da Maria Vergine e l'accolgono nell'ottica, non di un'esaltazione della verginità, ma dell'esaltazione della potenza creativa e salvifica della parola di Dio (Sul richiamo di Matteo a Isaia 7, 11, si veda: R. P. Brown, pp.161-196).
«Nessuna parola (od anche nessuna azione) è impossibile a Dio» (Lc 1,17). Ecco la chiave teologica di volta dell'intero vangelo dalla nascita alla resurrezione. Nella nascita, nella vita, nella passione, morte e resurrezione di Gesú, è all'opera la potenza redentrice di Dio, la forza della sua parola o promessa. E questo è ciò che celebra e annuncia la festa del Natale, come quella della Pasqua, e questo è ciò che il presepe illustra per tutti gli uomini che Dio ama, per i destinatari delle beatitudini.
Aldo Bodrato, febbraio 2009
(Anche questo testo, in forma compiuta, verrà pubblicato dal mensile "Tempi di fraternità". Inoltre, insieme ad altro materiale, che completa la riflessione sul genere letterario, sulla teologia dei "Vangeli dell'infanzia" e sul significato epifanico del presepe, queste tre ampie relazioni confluiranno in un libro, che l'autore spera di poter dare alle stampe entro la fine dell'anno)
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