Aldo Bodrato, lettera sul caso Englaro, 14 febbraio 2009

« lettera precedente

Lettera sul caso Englaro

Torino 14 - 2 - 09

Spettabile redazione de "La voce del popolo" e di "Nostro tempo",
abbiamo letto e sentito in questi ultime settimane, in relazione al caso Englaro, parole durissime da parte di organi di stampa cattolici e di autorità della Chiesa, anche di altissimo livello, parole giunte fino all'accusa di assassinio e di richiesta di scomunica per tutti coloro che hanno contribuito ad alleviare le sofferenze e ad abbreviare, con umana pietà e con gli strumenti medici, suggeriti da una più che millenaria esperienza, il camino alla morte di una non più giovane donna in stato di pre-morte da diciassette anni.

Nell'esprimere, anche a nome di molti altri credenti, lo sconcerto e la sofferenza per la quasi totale assenza, nei pronunciamenti ufficiali e ufficiosi dei pastori della nostra Chiesa, di segni di pietà e di conforto, di incoraggiamento a non vivere la morte come buco nero della vita, ma come passaggio e inizio di una vita nuova presso il Padre, segni tese a ricordare l'annuncio evangelico di resurrezione, mi permetto di sottolineare l'assenza, in questo dibattito sulla morte, di una parola cara alla tradizione. Una parola laica e precristiana, piena di umana verità e di sofferta passione: "agonia".

Ci siamo così abituati a lasciare gestire la morte dei nostri cari agli ospedali, da aver dimenticato che tra la vita e la morte sta spesso, sempre più spesso, il momento ultimo e penosissimo del "transitus", il momento del "lento morire". Questa espressione estrema della vita gli antichi la chiamavano "agonia", lotta e sofferenza, augurandosi fosse presto vittoriosa. Sapendo, però, che in ultimo sarebbe stata perdente e che la vita fisica avrebbe ceduto alla morte, perché siamo carne e polvere, alla polvere destinata, non operavano affinché si prolungasse troppo a lungo.

In qualche paese è ancora in uso una pratica antica. Un mesto rintocco di campana segna l'inizio dell'agonia di un morente, e ciascuno lo sente come invito a pregare perché Dio accolga l'anima dell'agonizzante e l'agonia non sia un travaglio troppo prolungato e penoso alla nuova vita che ci attende presso Dio. Persino nelle società pre-cristiane e presso i popoli delle più svariate e più o meno evolute civiltà, era ed è uso, a fronte dell'estremo atto di resistenza e di resa della vita alla morte, pregare il divino perché lo renda rapido e indolore. Si chiedeva e si chiede a chi può che non lo prolunghi. Si invoca dagli amici e persino dai nemici la pietà di affrettarne la fine, di non trasformare il morire in tortura.

Scomparsa l'esperienza diretta delle morti in casa e in famiglia, di questo transito, comune e spesso pubblico, dalla vita alla morte, è scomparso anche l'uso comune della parola "agonia"', che gli dava voce. È accaduto così che non si sia capito che nel caso di Eluana, non la vita, ma la sua agonia durava da diciassette anni, e che la questione in gioco non era, restituirle la vita o darle morte, ma allungare, senza pietà, questa agonia, o pietosamente aiutarla a chiudersi nell'unico modo ormai possibile. Anche questo produce la crescita dell'ignoranza pubblica e la perdita del prezioso dono delle parole, elaborate dalla cultura millenaria dei popoli di cui il cristianesimo è una straordinaria e ineguagliata espressione.

Aldo Bodrato


Lettera pubblicata su il foglio, n°3 2009

« lettera precedente