Morte & Resurrezione, un binomio fantastico

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Morte & Resurrezione, un binomio fantastico

Se l’Evangelo omettesse ogni menzione della risurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe piú facile. La croce da sola mi basta. Per me la prova, la cosa veramente miracolosa, è la perfetta bellezza dei racconti della Passione, insieme ad alcune parole folgoranti di Isaia: Ingiuriato, maltrattato, non aprí la sua bocca, e di san Paolo: Non ha considerato l’uguaglianza con Dio come un bottino… Egli si è svuotato… Si è fatto obbediente sino alla morte di croce, È stato fatto maledizione. È questo che mi costringe a credere

Simone Weil

L'elemento fondamentale del pensiero è una struttura binaria. La coppia, il paio sono anteriori ai loro singoli componenti. Come dice Paul Klee: Non esistono concetti a sé stanti, ma solo binomi di concetti. Cosí una storia può nascere solo da un binomio fantastico.

Gianni Rodari

Come credente, che criticamente s'interroga, mi sento in dovere di dover chiedere qualche chiarimento ai molti che, sulle tracce di Simon Weil, affermano la propria disponibilità a credere nell'esemplarità e persino nel potere salvifico della morte di Gesú di Nazareth, al punto da accettarne la messianicità cristologica, e al tempo stesso rifiutano di prendere in esame la portata teologica della fede nella sua resurrezione. Tale richiesta parte dalla constatazione che la notizia dell'avventura esemplare del Nazareno, degli straordinari insegnamenti esistenziali contenuti nella narrazione della sua passione e morte, difficilmente sarebbe giunta a noi con la forza persuasiva con cui ci colpisce, se gli autori del Nuovo Testamento, non avessero coralmente rielaborato tale messaggio sotto la spinta, non dico dei racconti di apparizione, ma dell'annuncio, incredibile e indicibile, della resurrezione.

«Il morto è il risorto e vi precede in Galilea»: dicono, su per giú, (o meglio, secondo Marco, dovrebbero dire e per paura tacciono) le donne al sepolcro (16, 6-8). La soluzione teologico-narrativa ed argomentativa data dagli altri evangeli, dalle epistole paoline e dal complesso degli scritti neotestamentari, a questo ossimoro narrativo può essere discutibile, soprattutto nei suoi sviluppi successivi, ma non può essere cancellata senza che alcunché la sostituisca.

Già Paolo, in testi celebri come la 1 Corinti, riconosce che la fede nella morte salvifica del Crocefisso è il cuore del suo vangelo (1–49), ma ribadisce che l'intera esistenza cristiana si regge sull'accoglienza dell'annuncio di resurrezione (15). E proprio lui, in Filippesi 2, ci ha trasmesso quello straordinario inno chenotico che costringe Simon Weil a credere, e che parla sí di umiliante morte da schiavo, ma anche di innalzamento sopra ogni potere del cielo e della terra.

Anche la teologia ha la sua Grammatica della fantasia

Ora, si può chiedere un chiarimento solo se si è disposti a darlo e, credo, che nessun vero chiarimento sarà fruttuoso se non si parte dalla convinzione che noi, non meno di coloro che primi hanno narrativamente rielaborato in chiave cristologica la loro esperienza di incontro col Gesú terreno, abbiamo il dovere di cercare di capire e di esprimere ciò che è maturato nel nostro incontro con lui, grazie alla loro testimonianza e alla nostra esperienza. Credere che Gesú di Nazareth è il Cristo, ritenerlo maestro e compagno della nostra vita, sentirsi alla sua sequela, riconoscerlo nell'altro, significa proclamarlo, in qualche modo, vivente. Significa sapere di avere il compito di chiarire a noi stessi e agli altri, come interpretiamo noi oggi la tradizionale e paradossale identificazione tra Crocefisso e Risorto, come traduciamo in racconto, in metafora, in riflessione teologica, il cuore della nostra fede.

L'intera teologia cristiana, non altrimenti si costruisce se non sulle basi di una grammatica della fantasia, rispettosa della coerenza razionale dell'argomentare narrativo, a partire da una lunga serie di binomi paradossali, quali: l'Innominabile-Nome, l'Inimmaginabile-Rivelato, il Verbo eterno-storicamente Incarnato, il Crocefisso-Risorto, binomi tutti puntualmente tradotti in storie piene di significato e di potere suggestivo e persuasivo. Il che non è poi molto diverso dal dire che, come la filosofia, anche la teologia nasce dalla meraviglia.

Ecco perché mi pare di dover osservare che per comprendere davvero il senso finale delle parole, qui dette da Simone Weil, su croce e resurrezione, bisogna prima di tutto chiarire cosa s' intende per credere. Crediamo che Gesú sia Figlio di Dio, nel senso, ancor tutto da decifrare, del centurione romano di Marco che, avendone visto la tragica morte, disse: «Questi davvero era figlio di Dio» (15, 39)? Crediamo col Pietro dei Sinottici che egli sia il Messia di Dio, senza capire come allora possa finire condannato a morte (Mc 8, 27-33)? Crediamo sia un profeta il cui insegnamento è veridico ed esistenzialmente salutare per ogni uomo, proprio perché é rimasto ad esso fedele fino all'ultimo? Proprio perché non si è valso delle sue capacità e del suo prestigio per farsi largo tra i potenti di questo mondo?

Perché una storia non diventi favola

Sia come sia, per ciascuno di questi credo l'annuncio di resurrezione non aggiunge nessun nuovo elemento rivelativo suo proprio. La resurrezione può aggiungere un solo nuovo elemento nel processo salvifico legato alla storia di Gesú, che nella morte in croce, cosí come evangelicamente rappresentata, ha il suo culmine. E questo elemento è il riconoscimento del fatto che in quella passione e morte Gesú di Nazareth viene confermato vero profeta, autentico messia, il Cristo di Dio. Viene riconosciuto tale dagli uomini e dalle donne che lo hanno seguito e, dopo averne visto la sconfitta, sentono il coraggio di proclamare che quella sconfitta è una vittoria. Morto, abbandonato dagli uomini e da Dio, Gesú risorto è la riaffermazione che lui non ha abbandonato né Dio, né gli uomini. Anzi, restando fedele alla propria idea dell'uomo e di Dio, ha vinto il potere nullificante della morte violenta, data per mano del potere, che aveva cosí tentato di annientarlo tanto nella persona, quanto nel significato globale della sua parola e della sua vita esemplare.

Gli evangelisti, dunque, dicendo che il condannato a morte è risorto, dicono che è vivo e continua a guidarli nel loro compito. Dicono che tale compito non è tanto quello di ricordarlo, quanto quello di renderlo operativamente presente, continuando, sotto la sua guida, la sua missione nella storia.

Marco si limita ad esprimere tale convinzione con la sobria indicazione, che Gesú precede i suoi in Galilea, dove ha avuto inizio la sua missione terrena e dove essa riprende il cammino dopo lo iato della sua morte. Gli altri sinottici, Giovanni e il resto del Nuovo Testamento si spingono oltre. Lo rendono materialmente percepibile sulla terra, dovendo poi aggiustare il tiro con l'ascesa al cielo e l'attesa di un escatologico ritorno. Ma il senso teologico dell'indicibile annuncio non cambia.

La fede nella resurrezione di Gesú non nega, non relativizza la centralità teologica della sua morte, la esalta e dice che Gesú, come Cristo di Dio, anche morto e con tutti i segni addosso del martirio, può essere proclamato vivente, perché non smette mai di parlare e di agire secondo giustizia per il bene di tutti, specialmente degli ultimi. La resurrezione non annulla la verità dell'insegnamento sul valore redentivo del prendere la propria croce e seguirlo, ma la certifica e la garantisce.

Il Gesú risorto è sempre e solo il Gesú crocefisso, nulla rivela sul suo eventuale nuovo stato ultraterreno, ma conferma la sua presenza tra i suoi, come compagno nella loro vita di annunciatori del suo insegnamento e continuatori della sua prassi di condivisione dei dolori e delle gioie della vita, di messa in comune del pane.

Ma, se la resurrezione ribadisce la radicale verità-antropologica e teologica della morte in croce di Gesú, questa morte non può diventare sorgente di una completa professione di fede, di un compiuto credo cristologico, esentandosi da un serio sforzo di comprensione e di traduzione concettuale del correlato annuncio di resurrezione.

Il che non vuole affatto mettere in discussione la serietà e verità esistenziale della dichiarazione di fede in Cristo di Simon Weil, che ha personalmente incarnato la sequela del Vivente in modo esemplare; e neppure vuole enfatizzare il tema della resurrezione. Vuole sottolineare l'inalienabile legame teologico sotteso alla contestualità narrativa della testimonianza della morte e dell'annuncio di resurrezione del Crocefisso e vuole evidenziare come, staccato dall'esperienza storica della morte di croce del Nazareno, tale annuncio, dilatato in autonomi racconti, finisca col suonare privo di qualsivoglia teologica credibilità e rischi davvero la favola.

Aldo Bodrato, giugno 2011

(Questo testo, verrà pubblicato sul sito web del mensile Esodo).